Pacifisti a Gaza e bellicisti in Ucraina, ma sempre per ragioni elettorali.
dottor Gianandrea Gaiani
Con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti di novembre e con il rinnovo del Parlamento Europeo di giugno che dovrà votare la fiducia a una nuova Commissione UE, è cresciuto in termini militari, ma soprattutto politici, l’impatto su governi e opinione pubblica in Occidente dei conflitti a Gaza e in Ucraina.
Un impatto che ha determinato curiosamente due differenti e ben marcate posture assunte dai leader delle nazioni aderenti a UE e NATO rispetto ai due conflitti in corso in Europa e ai margini del Vecchio Continente.
Appare infatti paradossale che l’Occidente prema da un lato per la pace, o quanto meno per un cessate il fuoco esteso, nella Striscia di Gaza mentre dall’altro non risparmi nessuna iniziativa, neppure quelle più pericolose per il rischio di coinvolgimento diretto nella guerra, per assicurarsi che il conflitto in Ucraina prosegua a oltranza.
Il tema può essere affrontato sotto diversi punti di vista, ma il pragmatismo risulta forse il metodo più idoneo a valutare i risvolti politici ed elettorali direttamente legati a questi conflitti.
Prendiamo prima in esame il conflitto in Medio Oriente. Dopo il sostegno “senza se e senza ma” accordato a Israele da USA e UE (con poche eccezioni) dopo l’attacco delle milizie di Hamas in territorio israeliano il 7 ottobre 2023, le speranze e le previsioni che a Gaza le
Israeli Defence Forces (IDF) potessero concludere in pochi mesi una campagna vittoriosa e chirurgica limitando le perdite tra i civili (danni collaterali) sono state del tutto deluse.
Non era difficile prevederlo, non solo ipotizzando che Hamas avesse pianificato con cura l’attacco del 7 ottobre e al tempo stesso la difesa all’inevitabile offensiva israeliana, ma anche tenendo conto che in due precedenti occasioni (nel 2009 con l’Operazione “Piombo Fuso” e nel 2014 con l’operazione “Margine di protezione”) le IDF penetrarono a Gaza con l’obiettivo di annientare le milizie di Hamas, ma furono indotte a fermarsi dalle pressioni internazionali per le tante vittime civili. Vittime, da un lato, inevitabili nell’area più sovrappopolata del mondo dove 2.2 milioni di persone vivono in un territorio di 40 chilometri per 10 e, dall’altro, “gonfiate” dalla propaganda di Hamas consapevole che proprio i civili uccisi costituiscono l’arma strategica (mediatica e psicologica) più importante in mano alle milizie islamiste.
Il progressivo affievolirsi del sostegno occidentale alla campagna militare di Israele fino alle velate minacce statunitensi di sospendere gli aiuti militari alle IDF (e soprattutto fino al riconoscimento dello Stato Palestinese da parte di alcune nazioni europee), si accentua con l’aumentare delle vittime civili denunciate dal ministero della Salute palestinese (emanazione di Hamas) e con il moltiplicarsi delle manifestazioni nelle università e nelle piazze negli USA e in Europa a sostegno della causa palestinese quando non direttamente a sostegno di Hamas.
Il fatto è che l’offensiva israeliana si protrae da troppo tempo impattando sulle elezioni in UE e USA e creando non pochi problemi alle forze di governo al potere sui due lati dell’Atlantico, che rischiano di precludersi il consenso di ampie fette di elettorato, specie quello più giovane e del sempre più rilevante, in termini numerici, elettorato islamico. A Washington il problema per l’amministrazione Biden e il Partito Democratico si complica ulteriormente tenendo conto anche dell’elettorato ebraico, che in parte chiede sostegno totale allo stato ebraico e in parte critica l’operato del governo di Gerusalemme. Per questo gli Stati Uniti, pur continuando ad armare Israele, politicamente chiedono alle IDF di fermarsi e al governo Netanyahu di negoziare con Hamas e hanno stanziato ben 9 miliardi di dollari per fornire aiuti umanitari alla popolazione di Gaza. Israele deve quindi fermare l’offensiva per non compromettere i consensi dei governi occidentali che lo sostengono.
Un contesto uguale, ma contrario, si riscontra invece rispetto al conflitto ucraino dove il progressivo logoramento delle forze di Kiev, la crescente superiorità russa e le sempre più gravi difficoltà occidentali a fornire armi e munizioni a un esercito sempre più numericamente inadeguato stanno determinando il rischio di un tracollo delle forze armate ucraine.
Difficile ritenere che la situazione militare possa venire rovesciata tenuto conto del tracollo del “fronte interno” ucraino ben evidenziato dal fatto che, dopo gli inutili massacri a Bakhmut e nella controffensiva del 2023, gli arruolamenti sono crollati, molti uomini vivono nascosti per sfuggire agli agenti reclutatori e Kiev è giunta a chiedere ai paesi europei di rimandare forzatamente in Ucraina gli uomini abili alle armi che lasciarono il paese insieme ai loro famigliari subito dopo l’inizio della guerra. A giudicare dalle dichiarazioni del segretario generale della NATO Jens Stoltenberg e dell’alto commissario UE per la politica estera Josep Borrell, in questo caso l’obiettivo dei governi statunitense ed europei è di prolungare il più possibile l’agonia dell’Ucraina per evitarne un tracollo che travolgerebbe senza dubbio in termini di prestigio e di consensi i leader che hanno voluto e alimentato il confronto con Mosca.
Quasi superfluo ricordare dichiarazioni e pronostici di Ursula von der Leyen, Mario Draghi, Joe Biden, Emmanuel Macron per non parlare dei premier e presidenti baltici, polacchi e scandinavi che per due anni hanno raccontato di soldati russi che rubavano le schede elettroniche dagli elettrodomestici per metterle nei sistemi d’arma o che combattevano con pale e badili, perché privi di munizioni, o che favoleggiavano di come le sanzioni occidentali avrebbero piegato l’economia e la macchina bellica russa.
Oggi l’economia in ginocchio è quelle europea, tra de-industrializzazione e previsioni di nuovi forti rincari energetici, mentre la crescita russa sfiora quest’anno il 4 per cento. È stato chiarito da report britannici che i russi produrranno quest’anno 4.5 milioni di proiettili d’artiglieria al costo di meno di mille franchi ognuno, mentre USA ed Europa insieme arriveranno a produrne solo 1.3 milioni al costo di 4000 franchi ognuno.
L’Europa non ha ormai più nulla da dare a Kiev in termini di armi e munizioni. In queste condizioni il tracollo dell’Ucraina non può essere escluso e la scelta più saggia sarebbe negoziare ora, in modo che l’Ucraina possa cavarsela perdendo “solo” quattro regioni più la Crimea. La sconfitta di Kiev però coinciderebbe inevitabilmente anche con la sconfitta delle nazioni aderenti a NATO e UE che non solo l’hanno sostenuta militarmente ma che, come USA e Gran Bretagna, nell’aprile 2022 le impedirono di chiudere onorevolmente il conflitto dopo un mese e mezzo con l’accordo mediato dalla Turchia in nome dello slogan che la guerra doveva continuare perché “avrebbe logorato la Russia”.
Insomma, l’Ucraina deve resistere e i soldati di Kiev devono continuare a morire, almeno fino alle elezioni statunitensi di novembre, perché il tracollo ucraino avrebbe un impatto diretto sul prestigio e il consenso delle attuali forze di governo in USA ed Europa.
Per aiutarli a resistere vengono prese misure militari pericolose perché aumentano il coinvolgimento diretto nel conflitto di alcune nazioni europee che hanno autorizzato l’impiego delle armi a più lungo raggio fornite a Kiev per colpire anche obiettivi sul territorio russo o che, come la Francia, hanno ufficializzato la presenza di istruttori e consiglieri militari sul territorio ucraino.
Un’escalation nel ruolo ricoperto dai membri di NATO e UE che difficilmente potrà rovesciare le sorti del conflitto sul campo di battaglia ma che potrebbe indurre Mosca a effettuare rappresaglie anche oltre i confini occidentali ucraini. Un rischio che molti governi in Occidente e soprattutto in Europa sembrano oggi disposti a correre per rimandare la sconfitta dell’Ucraina.
Pacifisti a Gaza e bellicisti in Ucraina, ma sempre per ragioni elettorali.
Articolo di dottor Gianandrea Gaiani
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