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Neutralità armata e autonomia strategica: un modello svizzero per l’Europa?

1. Una nuova geopolitica: la storia riprende il cammino

Potrebbe apparire provocatorio parlare oggi di neutralità in un contesto in cui si assiste alla militarizzazione dell’ordine internazionale. È l’intero equilibrio del post-Guerra Fredda che è in corso di ridefinizione. La storia riprende il cammino quasi offesa nei confronti di chi, come il politologo Francis Fukuyama, ne decretava la sua morte grazie all’indiscussa egemonia degli Stati Uniti e all’ideologia liberal-capitalista.

A partire dagli anni ’90, l’illusione che il mondo potesse essere affidato esclusivamente alla mano invisibile della finanza e del commercio internazionale ha posto un velo che ha impedito di valutare adeguatamente le trasformazioni che la globalizzazione alimentava.

In Europa non si è voluto o potuto capire a fondo il significato geopolitico dell’emergere della potenza cinese. Non si è nemmeno voluto veramente considerare la minaccia della Russia, malgrado Putin da tempo chiedeva di smetterla di considerare il suo paese solo come una realtà regionale incapace di competere con i Grandi.

A causa di questa miopia, l’Unione europea non è riuscita a diventare “la patria strategica” dei suoi cittadini. L’emergenza Covid, l’invasione russa dell’Ucraina e le pressioni di Donald Trump rendono ora vitale la definizione di una politica estera e militare condivisa che non può ispirarsi alle glorie passate delle grandi potenze europee, quali la Francia o l’Inghilterra, magari riprodotte all’ombra degli Stati Uniti. È piuttosto il pragmatico modello svizzero a offrire un sentiero realistico.

2. La neutralità svizzera come costruzione strategica

La neutralità armata svizzera è un processo diacronico all’interno del quale l’affermazione e la preservazione della neutralità non sono solo uno strumento di politica estera, ma anche un elemento determinante dell’identità nazionale: attraverso questo percorso la Svizzera è riuscita a diventare la “patria strategica” dei suoi cittadini.

Il successo della Svizzera, nella sua genesi, è il risultato di una sconfitta. La terribile fanteria degli Svizzeri fu battuta a Marignano (1515). Allora i Confederati rinunciarono alla politica di espansione militare scegliendo di preservare la propria indipendenza, mantenendo le distanze dai vicini troppo potenti: un approccio pragmatico, adattato alle circostanze.

La neutralità armata diventa istituzione giuridica con il Congresso di Vienna del 1815 quando “la neutralità e l’inviolabilità della Svizzera e la sua indipendenza sono sotto tutti gli aspetti nell’interesse comune dell’Europa”. Da allora la Confederazione deve basarsi su un proprio esercito forte, credibile, quindi dissuasivo.

Durante la Prima guerra mondiale, Carl Spitteler, influente intellettuale, primo svizzero a ricevere il Nobel per la letteratura, in un famoso intervento del 14 dicembre 1914, ammoniva:

“Mantenere le giuste distanze è un compito difficile soprattutto per lo svizzero- tedesco, il quale è unito in ogni ambito del sapere alla cultura tedesca più di quanto lo svizzero occidentale sia unito alla Francia”.

Il suo discorso sulla neutralità contribuì a rafforzare la coesione nazionale.

Come la Svizzera sia riuscita a evitare di essere invasa durante la Seconda guerra mondiale è ancora oggi un delicato tema di studio. Gli interessi contrastanti delle potenze in guerra sono probabilmente la ragione principale che ha permesso al Paese di salvarsi. Ma il fatto di avere una forte coesione interna, espressa in un esercito credibile, ha aiutato la navigazione in questa situazione estremamente delicata. Come scrive l’ambasciatore Alexis Lautenberg, la neutralità attiva è stata “la quintessenza della nostra strategia geopolitica per tutto l’Ottocento-Novecento”.

3. Una proposta per l’Europa: neutralità armata come autonomia strategica

La politica estera dell’Unione europea, almeno fino all’invasione russa dell’Ucraina, assomiglia – secondo l’ex consigliera federale Michelin Calmy-Rey – a quella di un paese neutrale, centrato sugli scambi commerciali, l’aiuto allo sviluppo, il rispetto del diritto internazionale e la mediazione. Si tratta di un approccio sostanzialmente economico basato sulla volontà storica di evitare nuove guerre nel Vecchio continente. Ma di fatto è una neutralità senza strumenti, senza autonomia e senza difesa.

Bruxelles non beneficia di grandi vantaggi nella competizione geopolitica attuale. Una lenta presa di coscienza di questi limiti si è fatta strada negli ultimi anni.

Il concetto di “autonomia strategica”, a seguito del Trattato di Lisbona, è riuscito ad aprirsi un varco sempre più consistente tra i sostenitori della necessità di una difesa comune e gli oppositori che considerano tale possibilità irrealistica e inopportuna, intimoriti dal rischio di accelerare il disimpegno americano nel Continente. A partire dalla Strategia globale del 2016 i suoi contorni si sono chiarificati in una formula: “Capacità di agire autonomamente, se e quando necessario, e con i partner, quando possibile”.

Ma non tutti gli stati membri interpretano quest’espressione nella stessa maniera, dal momento che non condividono né la stessa storia né la stessa geografia.

Il passo successivo fu la Bussola Strategica del 2022 che si propone di rafforzare la capacità di difesa, con i relativi investimenti tecnologici e digitali, riducendo la dipendenza da prodotti esteri. Tuttavia, “i molteplici strumenti volti a rafforzare la sicurezza e la difesa comune rappresentano, invero, singole strategie che si muovono in autonomia”. Di fatto la politica estera dell’Unione europea è stata meno attiva e meno unificata di quanto ci si poteva aspettare dall’adozione del trattato di Lisbona.

La sua struttura organizzativa non l’aiuta: a Bruxelles si è presa l’abitudine di separare geopolitica ed economia, mentre Cina e Stati Uniti (soprattutto ora con Trump) non esitano a utilizzare le capacità finanziarie, di credito e d’investimento a beneficio della loro politica di potenza. L’invasione dell’Ucraina ha ulteriormente messo in evidenza il rischio della dipendenza energetica, ma anche la persistente rilevanza degli Stati Uniti e della Nato nella sicurezza europea, che ne riduce la capacità autonoma di agire.

Gli Stati Uniti non sono più la potenza assoluta che ha provocato la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Con America is Back di Biden (una voluta conferma di potenza) a Make America Great Again di Trump, Washington ha deciso, in questa fase storica, che la sua forza militare e finanziaria può essere imposta a nemici e alleati per la difesa dei suoi specifici interessi nazionali: gli spazi di un’autonomia strategica dell’Unione europea mostrano quindi tutti i loro limiti.

Aspettando di capire se un mondo unipolare che ruota attorno agli Stati Uniti è ancora un’ipotesi plausibile, sia l’Europa, sia gli Stati Uniti dovrebbero prepararsi a rafforzare le loro sinergie rispettando la reciprocità dei loro interessi. Per gli Stati Uniti si tratterebbe di riconsiderare il partner Unione europea all’interno del Patto Atlantico, rispettandone la genetica di pacificazione intrinseca alla sua storia. Già negli anni Sessanta, il Comitato di azione per gli Stati Uniti d’Europa di Jean Monnet (la cui sede amministrativa era a Losanna) riteneva che l’unità economica e politica doveva perseguire “la formazione di relazioni di partenariato di eguale a eguale tra Europa e Stati Uniti, solo modo per consolidare l’Occidente e creare una pace durevole fra Est e Ovest”.

Il ruolo dell’euro, che attualmente preoccupa gli Stati Uniti, dovrebbe essere rafforzato anche per contenere le divagazioni macroeconomiche del biglietto verde che la Federal Reserve stessa fatica sempre più a controllare.

L’Unione europea dovrebbe spingere il concetto di autonomia strategica trasformandolo in neutralità armata, finalizzata alla difesa del territorio dei suoi stati membri e dei partner della Nato, se direttamente attaccati. Dovrebbe quindi emergere una leadership europea capace di porsi come interlocutore credibile tra gli Stati Uniti e il resto del mondo, che è alla ricerca di una governance diversa e diversificata.

Certo si tratta di wishfull thinking, di desiderata, che non sembrano potersi materializzare nel contesto attuale. Sta soprattutto all’Unione europea agire nel quadro del suo percorso, nato dalla necessità di evitare nuove guerre nel Continente europeo. Si tratterebbe di utilizzare strumenti che gli sono propri, rafforzando il suo mercato, anche quello militare e bancario, così da stimolare l’integrazione, come indicato nei rapporti di Enrico Letta e Mario Draghi.

Questi sforzi interni dovrebbero essere affiancati da un’autonomia strategica che si definirebbe sempre più come neutralità armata, condivisa dai suoi cittadini per riconoscere l’Unione Europea quale “patria strategica”. Anche un Erasmus per le reclute contribuirebbe a rafforzare il senso di appartenenza. Un occhio costante all’esperienza svizzera, costretta anch’essa a fare i conti con la realtà attuale, può essere utile.

Come ha scritto Micheline Calmy-Rey,

“la Svizzera, paese di lingue e culture multiple, così come l’Unione europea, ha potuto, grazie alla neutralità, rinforzare la sua coesione interna facendo riconoscere al resto del mondo una politica estera previsibile e utile”.

Ma anche per la Svizzera stessa e per il suo esercito, una collaborazione aperta con un quadro politico europeo che rifletta, almeno in parte, principi affini alla sua tradizione di neutralità armata e coesione strategica, sarebbe non solo più stimolante, ma anche coerente con la propria storia e identità.

Versione sintetica dell’articolo pubblicato nella Rivista di studi politici internazionali (gennaio-marzo 2025, FASC. 365) e presentato a Varsavia in occasione del Settimo Global International Studies Conference del World International Studies Committee (luglio 2024).

Articolo apparso sulla RMSI 4/2025 di Vito Monte, Dottore in scienze politiche e relazioni internazionali.
Ha lavorato quale ricercatore alla Fondation Jean Monnet pour l’Europe di Losanna ed è stato assistente alla facoltà di economia (HEC) nella capitale vodese.
Oggi dirige il Centro Studi Monte SA, società di gestione patrimoniale a Lugano

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