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Cooperazione militare e Rubicone elvetico

Conoscersi, imparare degli altri, esercitarsi insieme sono opportunità preziose, che vanno innanzitutto a vantaggio delle forze armate svizzere. Questo ci allontana dalla neutralità? La partita si gioca sul piano politico, non su quello tecnico. Ma è giusto porsi il problema dei limiti. Non in base a stereotipi e dogmatismi ma con lucidità e pragmatismo.

In Svizzera c’è chi vede qualsiasi passo volto a sviluppare contatti e cooperazione con le forze armate dei paesi vicini come il segno di un pericoloso allontanamento dalla nostra storica tradizione di neutralità.

Una lettura ideologica, che tende a fare di ogni erba un fascio, mescolando gli aspetti tecnici con la dimensione politica.

Il che non sorprende, perché in una certa misura ciò avviene da sempre e perché un momento di tensioni e incertezze come quello attuale non può che accentuare questa fog of confrontation del dibattito pubblico. Ma chi cerca di farsi un’opinione lucida e realistica della questione non può affidarsi agli stereotipi e alle generalizzazioni.

Occorre innanzitutto fare alcune chiare distinzioni.

In questo senso, sul piano tecnico, la cooperazione militare internazionale è, per la Svizzera, una importante opportunità.

Significa acquisire conoscenze ed esperienze preziose, a contatto diretto con organizzazioni e personale militare che affrontano i problemi di pianificazione e condotta con approcci non necessariamente uguali a quelli elvetici. I quali potranno così essere meglio misurati e quindi migliorati a beneficio delle qualità delle nostre capacità di difesa.

È un primo livello di ricaduta che va sottolineato e che dovrebbe incontrare il consenso di tutti, anche dei più diffidenti. Ma anche la possibilità di sviluppare forme di interoperabilità con le altre forze armate costituisce innanzitutto un vantaggio per la parte svizzera, sotto forma di opzione, da considerare in tutta una serie di scenari dalla catastrofe a cavallo delle frontiere alla situazione di crisi sociale, fino alla minaccia militare da parte di terzi in cui l’efficacia della risposta è legata sia alla quantità delle risorse disponibili, sia alla qualità del loro impiego (cioè dalla capacità di agire in modo coordinato e razionale).

Ma anche forme di cooperazione più stabili e strutturate, come ad esempio gli accordi per la tutela e il controllo dello spazio aereo e quelli per le esercitazioni dei nostri velivoli da combattimento in condizioni che non sono date nel nostro Paese sono utili e vantaggiose e rinunciarvi sarebbe un atto semplicemente autolesionista.

Probabilmente in pochi sosterrebbero questa posizione oggi come oggi. Se non fosse però una prassi oramai consolidata bensì una nuova proposta quanti la leggerebbero come un pericoloso passo che contribuirebbe ad “allontanarci dalla neutralità”?

In effetti è esattamente il tipo di resistenza che incontra oggi la proposta di partecipazione elvetica a progetti come Cyber Ranges Federation o Military Mobility.

Il primo vuole sviluppare le tecniche di cyberdifesa, necessità sempre più avvertita e in cui lo scambio di esperienze è più che mai utile.

Il secondo intende fissare regole e modalità puntuali per lo spostamento di truppe e mezzi attraverso i paesi europei (comprendendo, a certe condizioni, anche la Svizzera).

Soprattutto questo progetto è visto dai critici come l’ennesimo Rubicone sulla via di una adesione strisciante della Svizzera non tanto alla NATO quanto alla PESCO (Permanent Structured Cooperation, il “braccio armato” della UE). Credo che porsi il problema di un “Rubicone elvetico” sia non solo lecito, ma opportuno.

Poiché se la cooperazione tecnica in ambito militare presenta una innegabile prevalenza dei vantaggi rispetto alle eventuali controindicazioni, quando assume o viene caricata di valenza politica la questione si pone diversamente.

E se da un lato la visione dogmatica e monolitica della neutralità che sogna di una Svizzera sicura nel proprio “splendido isolamento” neutrale si scontra con una realtà di interconnessioni, interdipendenze e variabilità delle situazioni che ne fanno, per l’appunto, solo un sogno, dall’altro pensare che la cooperazione con i vicini e le alleanze in cui essi si riconoscono possa assumere sempre nuove forme senza rischiare di entrare in rotta di collisione con la neutralità (comunque la si intenda) è pure poco realistico.

Al di là degli aspetti di principio e degli enunciati formali, la neutralità è in effetti un intreccio di prospettive (la nostra e quella di chi ci guarda da fuori), di contingenze (le relazioni e i conflitti fra chi ci sta intorno), di interessi (fino a che punto la neutralità “conviene” alla sicurezza? … e agli affari?); ma anche di scelte politico-strategiche chiare, che a loro volta implicano limiti definiti, riconoscibili e riconosciuti (in particolare dagli altri).

Una maggiore cooperazione tra Svizzera e vicini sul piano militare – fatta di formazione, esercitazioni congiunte, sviluppo dell’interoperabilità – comporta il rischio di essere letta come segnale di una propensione all’avvicinamento destinata a sfociare, al di là delle rassicurazioni di facciata, in scenari di adesione-integrazione?

In Svizzera già oggi c’è chi propende per questa lettura, sia fra quanti la temono che fra quanti la sostengono.

Sarebbe interessante capire come la percepiscono davvero coloro che cooperano oggi con noi. È pensabile che fra loro prevalga l’idea che prima o poi la Svizzera confluisca in un sistema di difesa comune (lo ha fatto anche la ex-neutrale Svezia?).

Ma basta riguardarsi la storia del Novecento per constatare come “cordiali intese”, patti di non aggressione, alleanze dichiarate – ma anche “garanzie di neutralità” – abbiano conosciuto sviluppi e conclusioni assai diverse fra loro.

Tanto da permetterci di concludere che se la cooperazione, non solo militare, è sicuramente un buona cosa, da essa ad ipotecare il futuro il passo è ancora lungo. E solo chi coltiva e lascia aperte più strade potrà, anche domani, scegliere quale percorrere.

Articolo apaprso sulla RMSI 6/2024
di ufficiale specialista Giancarlo Dillena

Foto: Riunione dei membri dell’Armme davanti alla scuola di studi sulla pace e i conflitti
© VBS/DDPS, SWISSINT

Una risposta a “Cooperazione militare e Rubicone elvetico”

  1. Cooperazione militare e specificamente Cyber Ranges Federation,
    Military Mobility e PESCO.
    Andando a vedere la poco documentazione reperibile, difficilmente comprensibili agli non addetti ai lavori, forse non cosi chiara anche per loro, aggiungendo una certa “ingenuità” Elvetica, è chiaro che che ci sia una diffidenza accentuata e legittima.
    Anche per il fatto che la nostra vicinanza “storica” alla NATO non è un segreto di Stato.
    Ricordo che l’unico pericolo militare per la Svizzera non è certamente la Russia, ma la NATO/USA.
    Concordo che ci possono essere collaborazioni con “altri”, come in tutti i settori, ma deve essere ben chiaro cosa si intende sotto il termine “collaborazione” .

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